IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sul ricorso proposto da Di
 Fabio Dora, rappresentata e difesa dall'avv. Arcangelo Finocchi,  con
 procura  in  calce  al  ricorso  e  domicilio  eletto in Pescara, via
 Venezia, 25, contro l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza  dei
 dipendenti  statali  (E.N.P.A.S.)  in  persona  legale rappresentante
 (pro-tempore) presentato e difeso  dall'avvocatura  dello  Stato  per
 l'annullamento  del  provvedimento n. 177163 del 1983 dell'E.N.P.A.S.
 con quale si e' liquidata l'indennita' di buonuscita  (mandato  08859
 del 26 ottobre 1983 per L. 33.159.299);
    Visto  il  ricorso  con  i  relativi allegati, notificato il 13-17
 febbraio e depositato il 6 marzo 1987;
    Visto  l'atto  di  costituzione  in giudizio dell'avvocatura dello
 Stato (13 marzo 1987);
    Viste  le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Udito  alla  pubblica  udienza dell'8 novembre 1990 il consigliere
 Dino Nazzaro e uditi, altresi', l'avv. A. Finocchi per la  ricorrente
 e l'avv. dello Stato A. Piccirillo per l'amministrazione resistente;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
                               F A T T O
    La  ricorrente,  professoressa  delle  scuole  medie inferiori, e'
 cessata dal servizio in data 10 settembre 1983 ed ha ricevuto,  quale
 indennita'  di buonuscita, una somma (L. 27.513.055 netta) in cui non
 e' stata conteggiata la indennita' integrativa speciale, che pure  e'
 considerata  retribuzione. Tale esclusione trova il suo fondamento di
 legge nella legge 27 maggio  1959,  n.  324  (art.  1,  terzo  comma,
 modificato  dalla  legge  3  marzo 1960, n. 185) e d.P.R. 29 dicembre
 1973, n. 1032 (art. 38).
    Tale  assunto  viene  ritenuto contrastante con la mutata funzione
 della i.i.s., che con legge 9 ottobre 1971, n. 825 e legge  3  giugno
 1975,  n.  160,  e'  considerata parte integrante della retribuzione,
 soggetta all'Irpf (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597)  e  constituente
 base  imponibile  per  la  contribuzione  (art.  12  della  legge  n.
 153/1969).
    Tale evoluzione funzionale sarebbe stata confermata dalla legge 31
 luglio 1975, n. 364 e dalla legge 29 maggio  1982,  n.  297  (settore
 privato).
    Parte  ricorrente ritiene che l'art. 1, terzo comma della legge n.
 324/1959 e l'art. 38 del  d.P.R.  n.  1032/1973  devono  considerarsi
 abrogati  e  conseguentemente  la  liquidazione de qua e' errata e va
 annullata, dovendosi computare tutto lo stipendio annuo  complessivo,
 ivi compreso la i.i.s.
    Conclusivamente  si  chiede,  previa  declaratoria del diritto, la
 condanna dell'E.N.P.A.S. al pagamento  della  differenza  dovuta  con
 interessi, svalutazioni e spese di causa.
    In  via  subordiata  si eccepisce la illegittimita' costituzionale
 dell'art. 1, terzo comma della legge n. 324/1959, nella parte in  cui
 esclude  la conputabilita' della i.i.s. per i dipendenti statali, per
 violazione artt. 3 e 36 della Costituzione, prevedendosi per  costoro
 un  trattamento  economico  diverso  e  peggiore  rispetto al settore
 privato ed al parastato, lesivo  del  principio  della  "retribuzione
 proporzionata" alla qualita' e quantita' del lavoro.
    Sarebbe altresi' violato l'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n.
 1032,  non  potendosi  la  i.i.s.  quale  componente  dell'imponibile
 contributivo per i dipendenti statali.
    L'avvocatura  dello  Stato,  con  memoria  depositata il 27 aprile
 1990, resiste ed oppone quanto segue:
      la  i.i.s.  e'  compenso  accessorio e sussidiario variabile nel
 tempo,  escluso  tassativamente  dal  computo  del   trattamento   di
 quiescenza  e  di  previdenza, in quanto le leggi successive (legge 2
 aprile 1976, n. 177 e legge 3 giugno 1975,  n.  160)  non  hanno  mai
 abrogato l'art. 1, terzo comma della legge n. 324/1959;
      la  Corte  costituzionale (sentenza 11-25 febbraio 1988, n. 220)
 ha rimesso  ogni  modifica  alla  discrezionalita'  del  legislatore,
 confermando tale orientamento con ordinanza n. 419 del 6 luglio 1989,
 proprio su rimessione di questo tribunale  (ordinanza  n.  4  del  10
 gennaio 1989);
      la  disparita' andrebbe valutata con riferimento ai vari sistemi
 normativi e non con le  singole  norme  avulse  dal  loro  complesso,
 mentre  tra  rapporto  pubblico  e  rapporto privato, nonche' tra gli
 stessi  rapporti  pubblici,  non  e'  possibile  allo  stato   alcuna
 comparazione.
    Conclusivamente si chiede il rigetto con vittoria di spese.
    Alla pubblica udienza la causa e' stata assunta in decisione.
                             D I R I T T O
    Viene  riproposta  all'attenzione  di questo collegio la questione
 afferente l'inclusione  della  indennita'  integrativa  speciale  nel
 computo  della retribuzione, unitariamente e complessivamente intesa,
 da considerarsi ai fini  della  determinazione  della  indennita'  di
 buonuscita E.N.P.A.S.
   Trattasi  di problematica non nuova, gia' oggetto di valutazione da
 parte della giurisprudenza amministrativa e  costituzionale,  tuttora
 irrisolta sul piano del riconoscimento del diritto, sicche' la stessa
 tende  ormai  a  consolidarsi   come   quaestio   perennis   per   la
 insensibilita'   del   legislatore,   complice  la  remissivita'  del
 giudicante, incapace di rendere giustizia e farsi viva vox legis.
    Ed  invero,  e'  convinzione  del  tribunale  che la pretesa della
 ricorrente sia fondata e vada accolta, ma in mancanza di  un  preciso
 indirizzo  giurisprudenziale  in  tal  senso,  e tale da configurarsi
 quale vero e proprio diritto vivente,  il  collegio  ha  avuto  forti
 perplessita'  sulla  utilita'  di fare ricorso ad una interpretazione
 abrogatrice dell'art. 1, terzo comma, della legge 27 maggio 1959,  n.
 324  (modificato  con  legge 3 marzo 1960, n. 185) e dell'art. 38 del
 d.P.R. n. 1032/1973, con il conseguenziale riconoscimento del diritto
 alla Di Fabio Dora.
    Per  altro  verso questo giudicante ha anche presente l'indirizzo,
 per nulla convincente e poco equo, assunto dal giudice  delle  leggi,
 che  sembra  aver  dato  prevalenza ad altre considerazioni, rispetto
 alla  primaria  funzione  di  giustizia,  sicche'  il  rinvio   della
 questione  alla  Corte  costituzionale,  potrebbe sembrare un inutile
 rituale.
    Il  collegio,  peraltro,  non  ritiene  di  poter rigettare sic et
 simpliciter il presente ricorso, in quanto cio'  equivarrebbe  ad  un
 diniego  di  giustizia  sostanziale, ne' puo' accettare la tesi della
 "discrezionalita' legislativa" essendo convinto  che  i  diritti  del
 cittadino  non  possono  essere supinamente rimessi alla volonta' del
 legislatore, che e' spesso mosso da meri ragionamenti utilitaristici.
    Ad  avviso  del  giudicante  e',  pertanto,  compito  della  Corte
 costituzionale rimuovere lo stallo legislativo che e' di per  se'  un
 fattore  di  ingiustizia e di sperequazione nell'ambito del mondo del
 lavoro, unitariamente inteso, ove la non omogeneita' non puo'  essere
 portata  a giustificazione di disparita', che offendono i boni cives,
 specie allorquando questi si aspettano il giusto  riconoscimento  per
 l'attivita' svolta al servizio dello Stato.
    La  questione,  rebus  sic  stantibus, va rimessa al giudice delle
 leggi, dandosi cosi' accoglimento alla  richiesta  subordinata  della
 ricorrente,  apparendo  essa fondata e rilevante ai fini decisori del
 ricorso, in quanto, una volta  conducata  la  normativa  de  qua,  il
 giudicante dara' sicuro accoglimento alla pretesa attorea.
    Il  tribunale,  gia'  con altre precedenti ordinanze (fra tutte si
 cita la n. 400 del 13 aprile 1989 in Gazzetta Ufficiale, prima  serie
 speciale,  n.  37  del  13  settembre 1989) ha illustrato la funzione
 sempre piu' sostanziale della i.i.s. sul piano  della  remunerazione,
 che  non  e'  un dato statico ma un concetto "in espansione", con una
 sua precisa fisionomia "familiare", considerato dal Costituente  come
 mezzo  per la promozione sociale del singolo, che concorre con il suo
 lavoro all'elevazione materiale e spirituale della Nazione.
    Appare,  pertanto,  conseguenziale,  come  la  i.i.s.,  avendo  la
 funzione di "adeguamento al costo della vita",  abbia  ormai  assunto
 una posizione di "rilevanza costituzionale" nell'ambito del complesso
 retributivo e come  essa  non  possa  essere  relegata  in  posizione
 accessoria  o  sussidiaria,  tale  da  essere  pretermessa in sede di
 determinazione della liquidazione di  fine  rapporto,  sia  che  tale
 indennita' abbia natura previdenziale o natura retributiva. E invero,
 nell'una e nell'altra ipotesi la i.i.s. trova pieno titolo a  vedersi
 computare  nel  quantum  retributivo, perche', quale voce stipendiale
 assoggettata a contribuzione, costituisce comunque o il parametro  di
 determinazione  della  prestazione  previdenziale  finale o "elemento
 frazionale" della retribuzione differita.
    La  legge  27  maggio  1959,  n. 324, nel prevedere "miglioramenti
 economici al personale statale  in  attivita'"  ed  in  "quiescenza",
 venne  ad attribuire, a decorrere dal 1› luglio 1959, "una indennita'
 integrativa speciale mensile"  che  successivamente  (legge  3  marzo
 1960,  n.  185)  si  afferma essere non "computabile agli effetti del
 trattamento di  quiescenza,  di  previdenza  e  della  indennita'  di
 licenziamento  "  (art.  1,  lett.  b),  nonche' "esente da qualsiasi
 ritenuta comprese quelle erariali, non  concorrendo  alla  formazione
 del  reddito complessivo ai fini dell'imposta complementare" (art. 1,
 lett. c).
    Con  legge  31  luglio  1975,  n. 364, la i.i.s. viene corrisposta
 anche "in aggiunta alla tredicesima mensilita'", assimilandosi  cosi'
 completamente  alle  altre voci stipendiali corrisposte mensilmente e
 per tredici  mensilita'.  Di  tale  circostanza  ne  prende  atto  il
 legislatore  che  con logica conseguenzialita', sottopone a "ritenute
 in  conto  entrate  Tesoro"   (contribuzioni)   anche   "l'indennita'
 integrativa  speciale  di  cui  alla  legge 27 maggio 1959, n. 324, e
 successive  modificazioni   ed   integrazioni,   compreso   l'importo
 corrisposto sulla tredicesima mensilita'" (art. 13, n. 5, della legge
 29 aprile 1976, n. 177),  la  quale,  poi,  viene  anche  considerata
 reddito in denaro percepito continuativamente e soggetto a tassazione
 (art. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597).
    Tali  sviluppi  normativi  non consentono piu', sul piano logico e
 razionale, di ritenere la base retributiva  come  un  quid  ingessato
 dall'art. 1, lett. b), della legge n. 324/1959 (come modificato dalla
 legge n. 185/1960), atteso che la "base  contributiva",  posta  quale
 parametro  della  indennita'  di  buonuscita  (art.  3  del d.P.R. 29
 dicembre 1973, n. 1032) si e' allargata anche alla i.i.s.
    Essa sembra non essere prevista neppure dall'art. 38 del d.P.R. n.
 1032/1973, ma,  per  gli  sviluppi  normativi  successivi  (legge  n.
 177/1976)  trovasi  ad  essere automaticamente ricompresa nella "base
 contributiva" di cui al predetto art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, che
 al  secondo  comma  contiene  una clausola di chiusura allargata agli
 "assegni e le indennita' previsti dalla legge come utili ai fini  del
 trattamento previdenziale".
    Tale norma va letta necessariamente in coordinazione con l'art. 3,
 terzo  comma,  del  d.P.R.  29  dicembre  1973,  n.  1032,  il  quale
 stabilisce che "per la determinazione della base contributiva ai fini
 dell'applicazionedel comma precedente (indennita' per dodicesimi), si
 considera   l'ultimo   stipendio   e  l'ultima  paga  e  retribuzione
 integralmente   percepiti",   ovvero   anche   la   i.i.s.   che   e'
 funzionalmente  e  concettualmente assorbita nella retribuzione. Ma a
 tale corretta interpretazione "evolutiva" appare di ostacolo  proprio
 la  norma  originaria  (art. 1), cosi' come modificata dalla legge n.
 185/1960, art. 1, lett. b), nonche' l'art.  38,  secondo  comma,  che
 sembra voler riaffermare, attraverso l'inciso "le indennita' previste
 dalla legge e come utili ai fini del trattamento  previdenziale",  la
 validita'  e  la  vigenza  dell'art.  1,  terzo comma, della legge 27
 maggio 1959, n. 324, cosi' come  sostituito  all'art.  1,  lett.  b),
 della  legge  3 marzo 1960, n. 185, dando un contenuto "ristretto" al
 concetto  di  "ultimo  stipendio  o  l'ultima  paga  o   retribuzione
 integralmente  percepiti",  cui  fa riferimento l'antecedente art. 3,
 terzo comma, dello stesso d.P.R. n. 1032/1973.
    Il  giudicante,  pertanto, se in adesione alla richiesta di parte,
 provvedesse a considerare implicitamente  abrogati  l'art.  1,  terzo
 comma,  della  legge  27 maggio 1959, n. 324 (art. 1, lett. b), della
 legge 3 marzo 1960, n. 185) e l'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre  1973,
 n. 1032, secondo comma, non farebbe allo stato una corretta attivita'
 ermeneutica, consentita dall'ordinamento, ma  verrebbe  a  cancellare
 due   norme   che   sono  ancora  valide,  anche  se  intrinsecamente
 irrazionali ed in palese contraddizione con altra  normativa  statale
 (legge  29  maggio 1982, n. 297, art. 1) ed il "diritto vivente", che
 si impone ad ogni altra forma di legalismo o di schematismo  formale,
 ancorato  alle  presute  differenze strutturali tuttora esistenti tra
 "rapporto di diritto privato e  il  rapporto  di  lavoro  di  diritto
 pubblico".
    Essi,  infatti,  trovano  la  loro  sostanziale  "unitarieta'" nel
 concetto di "lavoro" presente nella Carta  costituzionale,  la  quale
 all'art.   1   fa   del  "lavoro"  il  fondamento  della  "Repubblica
 democratica" e lo strumento di coesione  etico-sociale  tra  tutti  i
 cittadini,   che,  in  quanto  "lavoratori"  (ovvero  esplicanti  una
 qualsiasi "attivita' o funzione che concorra al progresso materiale e
 spirituale   della   societa'"  art.  4  della  Costituzione),  hanno
 garantiti la effettiva partecipazione "alla organizzazione  politica,
 economica e sociale del Paese" (art. 3 della Costituzione).
    Va  ancora  ricordato che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte
 le  sue  forme  ed  applicazioni"  (art.  35   della   Costituzione),
 garantendo  una "retribuzione proporzionale alla quantita' e qualita'
 del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' e  alla
 famiglia   un'esistenza   libera   e   dignitosa"   (art.   36  della
 Costituzione),  la  quale  non   puo'   non   essere   paritariamente
 considerata  anche  per  le  ipotesi  di  "cessazione  del rapporto",
 dovendosi escludere artificiose "limitazioni" in sede di liquidazione
 di  indennita'  economiche,  ancor  piu'  inconcepibili proprio nelle
 ipotesi di sussistenza di contribuzione da  parte  del  "dipendente".
 Ne' puo' ritenersi che eventuali "differenziazioni" e "sperequazioni"
 a danno del "lavoratore pubblico" siano  del  tutto  ininfluenti  sul
 "buon  andamento" dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) o
 siano conciliabili con il dovere di "servizio esclusivo alla Nazione"
 (art. 98 della Costituzione).
    Orbene  il  giudice amministrativo, al pari di tutti i giudici, e'
 soggetto "alla legge"  (art.  101  della  Costituzione)  e  non  puo'
 arrogarsi  funzioni  proprie  della Corte costituzionale, cancellando
 dall'ordinamento norme "censurate di illegittimita'" e ancora vigenti
 per  la  colpevole  inerzia del legislatore, insensibile ai moniti ed
 alle sollecitazioni della stessa Corte, la quale,  invero,  non  puo'
 non  aver rilevato come "la disciplina legislativa del trattamento di
 fine servizio dei dipendenti pubblici", se e' stata stralciata  dalla
 legge  29  maggio 1982, n. 297 (art. 4, sesto comma) per mere ragioni
 di "sistematica" (la legge infatti, e' venuta a sostituire  le  norme
 del  codice  civile),  non  ha  alcuna giustificazione "ragionevole",
 atteso che lo stesso legislatore ordinario ha statuito  il  principio
 di "pari trattamento" per tutti i "rapporti di lavoro subordinato per
 i quali siano previste forme di indennita'  di  anzianita',  di  fine
 rapporto,  di  buonuscita,  comunque  denominate e da qualsiasi fonte
 disciplinate" (art. 4, quarto comma, della legge n. 297/1982).
    Era,  pertanto,  pensabile  che  il  legislatore  si  fosse voluto
 riservare la disciplina del  "settore  pubblico"  ad  altro  separato
 provvedimento  legislativo  "a  breve",  ma  cosi' non e' stato ed il
 dipendente pubblico trovasi costretto a "lottare per un suo  diritto"
 sperando    nella    interpretazione    adeguatrice    del    giudice
 amministrativo, cosi'  come  e'  gia'  avvenuto  per  l'altra  vexata
 quaestio   afferente   la   "svalutazione  monetaria",  ove  il  g.a.
 necessitate atque aequitate, e' stato costretto a superare lo  stesso
 decisum  della  Corte  costituzionale  in  merito all'art. 429, terzo
 comma, del c.p.c. (cosa  di  cui  la  Corte  ne  ha  preso  atto  con
 successiva  sentenza  del 24 marzo 1986, n. 52, riconoscendo la forza
 del diritto vivente), attraverso una interpretazione analogica  e  di
 "pari   trattamento"   del   dipendente   pubblico  con  quanto  gia'
 beneficiava il collega del settore privato.
   Un  analogo sforzo ermeneutico dovrebbe essere fatto dal g.a. anche
 per  la  "questione  buonuscita"  (cosi'  come  avvenuto,   pur   tra
 contrasti,  per  i  dipendenti degli enti pubblici disciplinati dalla
 legge n.  70/1975),  ma  appare  piu'  corretto,  anche  al  fine  di
 determinare  una tranquillante certezza giuridica erga omnes, nonche'
 doveroso, dopo quanto gia' enunciato in merito  dalla  stessa  Corte,
 rimettere  la  questione  al supremo consesso dominus del giudizio di
 legittimita' della legge.
    Il  collegio,  invero,  non  ignora  che  la Corte con sentenza n.
 220/1988 (seguita a sentenza n. 408/1988 e ordinanza n. 869/1988)  si
 e'   gia'   posta   la  presente  problematica,  concludendo  per  la
 inammissibilita' della questione di costituzionalita' degli artt.  1,
 terzo  comma,  lett. b), della legge 27 maggio 1959, n. 324 e legge 3
 marzo 1960, n. 185 e 3-38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, cosi'
 come  modificati  dagli  artt.  7, primo comma, della legge 29 aprile
 1976, n. 177 e dalla legge 20 marzo 1980, n. 75,  ma  e'  proprio  la
 lettura  di  tali  precedenti  che  porta  a ritenere la "sostanziale
 illegittimita' costituzionale della normativa de qua", anche se,  nel
 solco delle tendenza, non certo di valido apporto costruttivo ai fini
 della "certezza dei diritti", la Corte si e' limitata ad un monito al
 legislatore  (o  forse un invito-richiamo per una palese dimenticanza
 del completamento dell'opera  di  riforma  dell'istituto  in  parola,
 iniziato  con la ormai gia' lontana legge n. 297/1982, che partiva da
 premesse di sicura perequazione per tutti i rapporti subordinati), il
 quale  si e' ben guardato dal dare una sollecita risposta legislativa
 "adeguata alla sete di  giustizia  presente  nel  pubblico  impiego",
 esponendo  la stessa Corte a forme di "sentenze suicide", in cui alla
 espressa    "inammissibilita'"    fa    riscontro    una    "convinta
 incostituzionalita' della normativa medesima".

    Che sia cosi' ne e' controprova la sentenza n. 971/1988, afferente
 la  c.d.  destituzione  di  diritto  a  seguito  di  condanna  penale
 irrevocabile,   senza   la  previsione  del  previo  esperimento  del
 procedimento disciplinare, ove la Corte, dopo aver con  ordinanza  n.
 447  del  12  novembre  1987  (richiamata  la  sentenza  n. 270/1986)
 dichiarato la manifesta inammissibilita' della questione con l'invito
 "fermamente  ribadito"  a  che  il  legislatore "abbia a procedere in
 tempi brevi ad una attenta considerazione dei valori e  dei  connessi
 problemi  afferenti la disciplina della sanzione di cui trattasi", ha
 successivamente ritenuto di rompere gli indugi e  provvedere  per  la
 immediata  declaratoria  di  illegittimita'  della  norma  lesiva dei
 principi costituzionali, sussistendo "la necessita' di razionalizzare
 il   sistema...  con  adeguamento"  ai  criteri  di  omogeneizzazione
 emergenti dalla legge-quadro sul pubblico  impiego  (legge  29  marzo
 1983, n. 93).
    Con  sentenza  n.  220 dell'11-25 febbraio 1988, preso atto che la
 i.i.s. in base agli artt. 46 e 48 del d.P.R. n. 597/1973  e  art.  42
 del  d.P.R.  n.  601/1973,  concorre a formare il reddito complessivo
 netto ai fini dell'applicazione dell'aliquota e "quindi  assoggettata
 ad imposta cosi' come tutti gli altri redditi di lavoro", nonche', in
 base all'art. 22 della legge 3 giugno 1975, n. 160, che la stessa  e'
 pure  assoggettata  "ai contributi assistenziali e previdenziali", la
 Corte ha focalizzato la sua attenzione sulla legge 29 maggio 1982, n.
 297 (art. 2120 del c.c., settore privato), sulla legge 20 marzo 1975,
 n. 70 (art. 13, personale enti substatali) e  sulla  legge  7  luglio
 1980,  n.  299  (art.   3,  dipendenti enti locali) "norme queste che
 prevedono tutte  la  computabilita',  nella  base  di  calcolo  delle
 indennita'   di  fine  rapporto  da  esse  regolate,  rispettivamente
 dell'indennita'  di   contingenza   e   dell'indennita'   integrativa
 speciale".
    Cio'  posto la Corte, dato atto che gli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29
 dicembre 1973, n. 1032, cosi'  come  modificati  dall'art.  7,  primo
 comma,  della  legge  29  aprile 1976, n. 177, e dalla legge 20 marzo
 1980, n. 75, non prevedono  la  indennita'  integrativa  nella  "base
 contributiva",  si  e'  limitata a riproporre, per quanto riferito al
 settore  privato,  la  tralatizia  differenziazione   strutturale   e
 funzionale  tra  rapporto  privato  e  rapporto  di diritto pubblico,
 comportando  quest'ultimo  l'esercizio  di   pubblici   poteri,   che
 renderebbero  improponibile  un  raffronto  tra i detti rapporti, pur
 ammettendo una "trasfusione  reciproca  di  principi  e  di  istituti
 garantistici".
    La   Corte,  peraltro,  ha  parlato  di  "non  compatibilita'  dei
 trattamenti di quiescenza, anche con riferimento alle  indennita'  di
 fine  rapporto",  in quanto la indennita' corrisposta dall'E.N.P.A.S.
 "differisce da ogni altra indennita'".  quale  l'indennita'  di  fine
 rapporto  dei  dipendenti  substatali  e  l'indennita' premio di fine
 rapporto  dei  dipendenti   degli   enti   locali,   precisando   che
 l'attenuarsi   dei   requisiti   "piu'   propriamente   a   vocazione
 previdenziale, non fa venir meno  talune  caratteristiche  distintive
 dell'indennita'  di buonuscita erogata dall'E.N.P.A.S., rispetto alle
 indennita' di fine rapporto", sussistendo  "differenze  sostanziali",
 tra  cui  individua  "il  concorso  all'ammontare dell'indennita' dei
 contributi del pubblico  dipendente,  contributi  ai  quali  essa  e'
 proporzionata",  mentre la indennita' ex art. 2120 del c.c. e art. 13
 della  legge  n.  70/1975,   sono   collegate   ad   "accantonamenti"
 proporzionati alla retribuzione.
    Ed  invero,  una  tale affermazione lascia fortemente perplesso il
 comune  cittadino,  in  quanto  proprio  perche'  c'e'  un   rapporto
 contributivo  del dipendente, che si attua anche sulla i.i.s., non si
 comprende come mai  essa  possa  sfuggire  in  sede  di  liquidazione
 finale.   Tali   perplessita'   risultano   accentuate,   poi,  dalla
 circostanza, rilevata dalla stessa Corte, che ai sensi del d.P.R.  17
 settembre  1987,  n.  494, la i.i.s. va conglobata nello stipendio di
 tutto il  personale  statale  e  pubblico,  ragion  per  cui  non  si
 comprende  quale  "discrezionalita'  legislativa" possa essere ancora
 riconosciuta al legislatore, se  non  quella  di  abrogare  le  norme
 "ostative",  cosa che, invero, puo' ben fare la Corte costituzionale,
 se e' vero che "il sistema gia' soffre di sperequazioni  sostanziali"
 che non puo' non condurre a valutazioni globali della normativa, che,
 sulla base dell'accentuazione del carattere irrazionale delle singole
 componenti,  conduce  ad  "una  valutazione  di  illegittimita' della
 normazione complessiva".
    Nella  specie  il tribunale amministrativo non viene a sollecitare
 un intervento "additivo", bensi' l'intervento decisorio  della  Corte
 su  una  questione  che  si  trascina da anni comprimendo i legittimi
 diritti patrimoniali del "lavoratore dipendente pubblico", il che  e'
 possibile  solo  con  la declaratoria di illegittimita' degli artt. 1
 della legge 27 maggio 1959, n. 324 e  3-38  del  d.P.R.  29  dicembre
 1973,  n.  1032, il che del resto e' una possibilita' gia' ipotizzata
 nella sentenza n. 220/1988, e  non  rinviabile,  stante  la  completa
 latitanza del legislatore.
    La  Corte  costituzionale  non puo' usurare la propria funzione di
 "garanzia suprema" in una mera attivita' di  ammonimento-avvertimento
 al  legislatore,  ne' puo' trincerarsi su insussistenti situazioni di
 "discrezionalita' legislativa" (la sentenza n. 971/1988 docet),  pena
 la  stessa credibilita' dell'istituto, cui tutti i cittadini guardano
 come unico elemento di "certezza nell'ambito di un sistema  normativo
 frammentario, convulso e rimesso a spinte contingenti e corporative".
    Questo  tribunale  amministrativo,  pertanto,  non potendo directe
 considerare  superate   le   normative   de   qua,   attraverso   una
 interpretazione-abrogazione  che,  per  quanto  giustificata, sarebbe
 poco  corretta  nei  confronti  del  sistema   costituzionale,   deve
 necessariamente  sollevare  la  eccezione  di costituzionalita' posta
 come subordinata da parte ricorrente, essendo la  stessa  sicuramente
 fondata  e rilevante ai fini decisori del ricorso medesimo, in quanto
 il giudicante, una  volta  caducata  la  normativa  ostativa,  potra'
 tranquillamente  dare  accoglimento  alla  pretesa attorea, superando
 tutti i dubbi di correttezza interpretativa.
    La  normativa  censurata,  cosi'  come  esposta in motivazione, e'
 costituita dai seguenti articoli:
      art.  1,  terzo  comma, lett. b), della legge 27 maggio 1959, n.
 324 e legge 3 marzo 1960, n. 185;
      art.  3-38  del  d.P.R.  29  dicembre 1973, n. 1032 (t.u. avente
 forza  di  legge  ai  sensi  art.  134,  primo  comma,  della   Corte
 costituzionale),  legge 29 aprile 1976 (art. 7, primo comma) n. 177 e
 legge 20 marzo 1980, n. 75, per la parte in cui esclude, in deroga  a
 quanto  stabilito  per  il settore privato e per gli altri dipendenti
 pubblici, la indennita' integrativa speciale dal computo  della  base
 contributivo  retributivo  da considerarsi ai fini della liquidazione
 della buonuscita, ponendo "sperequazioni sostanziali" tra le  diverse
 categorie    di    "lavoratori",   accentuando   il   "carattere   di
 irrazionalita'" della "normazione complessiva".  Gli  articoli  della
 Costituzione violati dalla predetta normativa sono:
      art.  1  della  Costituzione  che  tutelando  "unitariamente" il
 lavoro non tollera situazioni di privilegio, quali  quelle  riservate
 al settore privato, ai dipendenti substatali e degli enti locali, che
 hanno un trattamento economico di fine lavoro (la natura  retributiva
 o   previdenziale   non   incide   sul   carattere  di  "attribuzione
 patrimoniale  finale"  al  lavoratore  subordinato)   irrazionalmente
 differenziato   e  piu'  vantaggioso  rispetto  ai  "pari  dipendenti
 statali";
      art.  4  della  Costituzione  da' dignita' costituzionale a ogni
 tipo di attivita' o funzionale  (materiale  e  spirituale,  ma  anche
 privata,  substatale  e  statale)  cui  deve  corrispondere  un  pari
 trattamento di fine rapporto di lavoro, al di la'  delle  distinzioni
 teoriche sopra evidenziate;
      art.  3  della Costituzione, quale diretta conseguenza di quanto
 espresso in relazione agli artt. 1  e  4  della  Costituzione  e  con
 riferimento al diritto all'uguaglianza e alla "pari dignita' sociale"
 che oggi e' sancita anche (e fortemente) sul  piano  dei  trattamenti
 patrimoniali di qualsivoglia tipo;
      art.  35  della  Costituzione,  in  relazione  all'art.  3 della
 Costituzione, in quanto la "tutela del lavoro"  si  attua  anche  sul
 piano  della  pari considerazione in sede di attribuzione di benefici
 economici di  eguale  valenza,  quali  sono  le  indennita'  di  fine
 rapporto;
      art.  36  della  Costituzione,  in  relazione  all'art.  3 della
 Costituzione,  perche'  la  retribuzione  "dovuta"  non  puo'  subire
 "limitazioni"  di  tipo  discriminatorio  in  sede di applicazione di
 benefici  pur  sempre  connessi  all'attivita'  lavorativa,  cui   la
 retribuzione medesima e' proporzionale;
      art.   38   della   Costituzione,   atteso   che   il  carattere
 previdenziale di una attribuzione patrimoniale, non  puo'  costituire
 motivo di "discriminazione in danno", particolarmente quando sussiste
 una contribuzione di parte;
      artt.  97 e 87 della Costituzione, in relazione all'art. 3 della
 Costituzione, in quanto il  trattamento  di  sfavore  del  dipendente
 statale  rispetto  ai  dipendenti  privati  e substatali, si riflette
 negativamente sul piano della efficienza e della funzionalita'  della
 p.a.,  la  quale,  al  fine  di  assicurare  il  buon  andamento e la
 imparzialita'  dell'azione  amministrativa,  ha  chiesto  al  proprio
 dipendente   un   "servizio   esclusivo"   che   deve  trovare  "pari
 valutazione" in  sede  di  corresponsione  di  trattamenti  economici
 equivalenti.

   La  Corte,  invero,  ha  risposto  alle  sollecitazioni  di  questo
 tribunale  premettendo  che  "ha   gia'   dichiarato   inammissibile"
 l'eccezione   de   qua,   "censurandosi  una  scelta  riservata  alla
 discrezionalita' legislativa", aggiungendo, poi, che il giudice a quo
 non  ha motivato sulla incidenza dei parametri di incostituzionalita'
 (artt. 1, 4, 35 e 98 della Costituzione) nel giudizio, limitandosi  a
 chiedere  la declaratoria d'illegittimita' costituzionale delle norme
 impugnate per non avere il legislatore raccolto l'invito della  Corte
 (sentenza   n.   220/1988)  a  procedere  alla  omogeneizzazione  dei
 trattamenti di quiescenza nell'ambito del pubblico impiego.
    Sempre nell'ordinanza n. 419/1989 si legge che non sarebbero stati
 allegati  nuovi  profili   d'incostituzionalita',   "mentre   permane
 pressante  l'invito  all'intervento del legislatore, sia pur graduale
 nei  modi  e  nei  tempi  anche  in  considerazione  delle   esigenze
 finanziarie   connesse  alla  riforma  generale  dei  trattamenti  di
 quiescenza".
    Ed  invero,  da  tale  decisione  si evidenziano con precisione le
 preoccupazioni "extragiuridiche" della Corte che, pur convinta  della
 "incostituzionalita'"   del   distema  di  quiescenza  degli  statali
 (liquidazione  E.N.P.A.S.),  fa  ricorso  alla  sussistenza  di   una
 presunta "autoeliminazione" dei propri poteri di giudice delle leggi,
 con rinvio della questione alla  "discrezionalita'  legislativa"  che
 all'esterno,  pero',  appare  al  cittadino, vera e propria giustizia
 denegata, non  comprendendo  questi  il  significato  dei  "pressanti
 inviti"  rivolti al legislatore, che ha dimostrato di perseguire come
 unico scopo quello di guadagnare tempo e denaro,  prigioniero  com'e'
 della logica perversa del mitico problema della spesa pubblica. Essa,
 infatti,  alla  lunga  sta  risultando  un  comodo   espediente   per
 perpetuare   situazioni   di   ingiustizia,   che   sono  tanto  piu'
 intollerabili, specie allorquando "i  cordoni"  vengono  allentati  o
 sono  del  tutto  inesistenti  per altre categorie che hanno maggiore
 potere contrattuale.
    E'  pur  troppo  facile  imputare  al "giudice" gli sfondamenti di
 bilancio, quando e' lo stesso legislatore che  pone  e  mantiene  nel
 tempo  "situazioni  di  disparita'", e sarebbe veramente grave che la
 Corte, in un'epoca che tende a qualificarsi come  una  "societa'  dei
 diritti", faccia prevalere la logica dell'economia, sulle esigenze di
 equita', per venire in soccorso della politica che, come ha insegnato
 un  maestro  del  diritto, deve restare al di fuori della porta della
 Giustizia.
    E  del  resto  la stessa Corte, con sentenze nn. 763 del 30 giugno
 1988, e 821 del 14 luglio  1988,  non  ha  esitato  a  dichiarare  la
 illegittimita'  costituzionale delle disposizioni della legge 8 marzo
 1968, n.  152,  disparitaria  per  i  dipendenti  degli  enti  locali
 iscritti  all'I.N.A.D.E.L.  rispetto agli statali, proprio in materia
 di "premio di  servizio"  analogo  e  omogeneo  nella  sostanza  alla
 buonuscita.
    Nel  mentre,  pero',  vengono  aperte sempre nuove aspettative, si
 assiste, poi, da parte della stessa  Corte,  a  improvvisi  stoppage,
 accontentandosi  di  accordi  generici  in  sede  contrattuale  o  di
 proposte di legge presentate alla Camera o ancora di primi  passi  di
 conglobamento   nello   stipendio   di   una   quota  dell'indennita'
 integrativa speciale per alcune categorie (d.-l. 27 dicembre 1989, n.
 413,  convertito  dalla  legge  28 febbraio 1990, n. 37), seguiti dai
 rituali pressanti inviti al legislatore per una sistemazione organica
 della  materia  (ordinanza Corte costituzionale n. 143 del 7-26 marzo
 1989 e 189 del 4-12  aprile  1990)  che  non  servono,  peraltro,  ad
 arginare il contenzioso che e', invece, veramente pressante.
    Si  assiste,  poi, anche a dei veri e propri ripensamenti rispetto
 alla stessa sentenza n. 200/1988, ove la Corte dava per pacifico  che
 per  i  dipendenti  degli  enti pubblici (legge n. 70/1975) la i.i.s.
 andava  computata  nella  retribuzione  da   porsi   a   base   della
 liquidazione di anzianita'; certezza che e' stata rimessa in dubbio e
 demandata alla "discrezionalita' del legislatore" con  ordinanze  nn.
 217 e 218 del 4-19 aprile 1990.
    Questa  posizione della Corte, ispirata al c.d. self-restraint, e'
 diventata ormai tralatizia (da  ultima  ordinanza  n.  491  del  9-22
 ottobre  1990)  e  tale  da  scoraggiare  ogni  giudicante,  sia pure
 incalzato da forti "domande di giustizia".  Questo  collegio,  pero',
 memore  del  valore  insostituibile  della  "lotta  per  il diritto",
 ritiene suo dovere  investire  di  nuovo  della  questione  la  Corte
 costituzionale  che,  peraltro,  con altra sua pronuncia (sentenza n.
 115  del  6-9  marzo  1990)  ha,  in  materia   di   pignoralita'   e
 sequestrabilita' dello stipendio, affermato che "non vi e' dubbio che
 l'indennita' integrativa speciale e' da considerare un elemento della
 retribuzione   complessiva  dipendente  cosi'  come  l'indennita'  di
 contingenza lo e' per i dipendenti privati".
    Se  cio'  e' esatto, come certamente lo e', quale discrezionalita'
 ha  ancora  il  legislatore?  Perche'  limitarsi  ad   una   funzione
 monitoria, che se troppo reiterata nel tempo perde ogni credibilita',
 quando e' nei poteri della Corte caducare la norma in parte qua cosi'
 come e' sempre stato fatto anche quando erano pendenti varie proposte
 legislative? Ed anzi, a proposito della "pubblicita'"  della  udienza
 nel  giudizio  tributario,  la  pronuncia  della  Corte  e'  venuta a
 precedere una legge gia' in dirittura d'arrivo, ritenendosi  esaurita
 la fase degli ammonimenti e troppo lenta la elaborazione legislativa.

    Nell'ordinanza   n.  419/1989  la  Corte  ha  affermato  che,  pur
 facendosi riferimento a nuovi parametri (artt. 1, 4, 35  e  98  della
 Costituzione)  rispetto  ad altri gia' sollevati in precedenza (artt.
 3, 36, 38 e 97 della Costituzione),  sarebbe  mancato  da  parte  del
 giudice  rimettente  la  motivazione  sulla  incidenza  di tali nuovi
 parametri nel giudizio in corso e non sarebbero stati allegati  nuovi
 profili d'incostituzionalita'.
   Tali  affermazioni,  invero,  lasciano perplesso il collegio e sono
 apparse  piu'  finalizzate  ad  una  frettolosa  liquidazione   della
 querelle,  gia'  affrontata  in precedenza con sentenza n. 220/1988 e
 varie ordinanze (nn. 641, 869, 1070 e 1072 del 1988), senza  ritenere
 di dover impegnarsi in una nuova motivata sentenza.
    Questo  tribunale, peraltro, prende atto di tali appunti e, fedele
 ai canoni della chiarezza e della  semplicita',  viene  a  illustrare
 ulteriormente  le proprie censure. I sollevati vizi di illegittimita'
 vengono  ad  incidere,  infatti,  sullo  svolgimento  e  l'esito  del
 giudizio in corso in forma diretta, immediata e sostanziale, perche',
 se essi  risulteranno  fondati,  verranno  ad  eliminare,  sul  piano
 normativo,  quelle  disposizioni di legge che oggi sono ingiustamente
 ostative all'accoglimento della richiesta, salvo  che  il  giudicante
 non volesse far ricorso al cd. uso alternativo del diritto.
    Circa  i  nuovi  profili  di  incostituzionalita' si specifica che
 l'art. 1 della Costituzione, piu'  che  violato,  e'  calpestato  dal
 legislatore,  che ha posto in essere e mantiene tuttora una normativa
 penalizzante  solo  verso  alcuni  "lavoratori";  situazione   questa
 aggravata  dalla  posizione  assunta  dalla Corte costituzionale che,
 trincerandosi dietro un incomprensibile non liquet  e  rimettendo  la
 soluzione  alla  discrezionalita' del legislatore, ha dederminato una
 situazione di "incertezza del diritto", ove, venuto meno il  criterio
 della  ragionevolezza,  resta  solo  l'arbitrarieta' del legislatore,
 essendo questi del tutto libero circa l' an , il quando e il  quomodo
 armonizzare il sistema. Prova ne e' che la Corte non ha mai posto dei
 limiti temporali  ai  propri  pressanti  inviti,  accontentandosi  di
 timide  iniziative  legislative  che  sanno  di  molto  fumo  e  poca
 sostanza.
    Con  riferimento  all'art.  4  della Costituzione la pari dignita'
 costituzionale e' del tutto svuotata e resta  un  vacuum  nomen,  non
 comprendendo  il  cittadino-lavoratore  il  perche' si nega ad alcuni
 quello che ad altri e' stato pacificamente concesso e  come  mai  una
 vetusta  legge  possa  imporsi  agli  stessi principi costituzionali,
 quasi che il principio di eguaglianza  (art.  3  della  Costituzione)
 andrebbe  letto  con  un'aggiunta nel senso che vi e' sempre qualcuno
 che e' "piu' uguale" di altri.
    Il  principio  lavorista  e  quello  di  uguaglianza postulano una
 "generale  coerenza  dell'ordinamento"   (Corte   Costituzionale   n.
 204/1982)  ed  escludono  normative  particolaristiche  e settoriali.
 Dall'esigenza  di  universalita'  della  norma  discende  la   tutela
 unitaria   del  lavoro  (art.  35  della  Costituzione)  e  non  c'e'
 distinzione  che  tenga  allorquando  sono  in  discussione   diritti
 "indistintamente   comuni  a  tutti  i  lavoratori"  (sentenza  Corte
 costituzionale n. 136/1984).
    Dall'art.  36  in  collegamento con l'art. 3 della Costituzione si
 ricava poi quel principio di "perequazione" che non puo' non  operare
 in  materia  di  liquidazioni  di  fine  rapporto  di  lavoro, ove le
 esistenti disarmonie da fattore discriminatorio, non  possono  essere
 elevate  ad elemento giustificativo di una diversita' intrinsicamente
 irragionevole  (cfr.  sentenze  nn.  560/1987,  156/1988,   882/1988,
 55/1989   e  141/1989).  Di  fronte  ad  un  evidente  scoordinamento
 legislativo o ad anacronismi normativi, la  Corte  costituzionale  ha
 sempre   fatto   ricorso   alla  c.d.  irragionevolezza  sopravvenuta
 (sentenze nn. 1/1984, 89/1987 e  179/1988),  specie  nell'ambito  del
 pubblico  impiego,  ove  ormai  sono  consolidati  i  principi  della
 onnicomprensivita'  ed  omogeneita'   dei   trattamenti   retributivi
 (sentenza  Corte  costituzionale  n.  267/1988),  che non possono non
 valere anche in sede di liquidazione finale.
    Proprio   con   riferimento   all'art.   36   della  Costituzione,
 autorevolissima dottrina, ha  ritenuto  che  la  i.i.s.  e'  elemento
 determinante  ai  fini del concetto di retribuzione sufficiente e non
 si vede come tale  retribuzione  debba  essere  mozzata  in  sede  di
 computo della buonuscita E.N.P.A.S.
    Il   giudice  costituzionale  ha  sempre  sostenuto  la  immediata
 precettivita' dell'art. 38 della costituzione, collegato sia all'art.
 3   che   all'art.   36   della  Costituzione  (cfr.  sentenza  Corte
 costituzionale  n.  102/1975),  anche  se  ha  spesso   concesso   al
 legislatore  la  possibilita' di un "razionale contemperamento con la
 disponibilita' finanziaria"  e  la  "gradualita'  per  riforme  molto
 onerose";  ma  nel  caso  di  specie  la  gradualita'  si  e' fermata
 indefinitivamente  e  unicamente  nei  confronti  di  una   specifica
 categoria   di   dipendenti,   donde   si   ricava   che   la  famosa
 discrezionalita' del legislatore si e' sostanziata in una  scelta  di
 "non provvedere", sacrificando, in base ad opinabili scelte politiche
 ed economiche, i diritti dei soggetti contrattualmente  piu'  deboli,
 complice la passivita' degli organi di giustizia.
    Tutto   cio'   non   e'  certamente  funzionale  per  la  pubblica
 amministrazione (artt. 97 e 98 della Costituzione) ed  e'  palese  il
 contrasto  tra l'assolutezza dei doveri del dipendente pubblico ed il
 disfavore del trattamento di quiescenza a questi riservato.
    Il  tribunale,  nel  rimettere la questione all'esame della Corte,
 ritiene di adempiere ad un atto doveroso in favore della lotta per il
 diritto  da  parte  dei tanti dipendenti statali che hanno lasciato e
 sono prossimi a lasciare il servizio con un trattamento di quiescenza
 quasi dimezzato.
    Si  ritiene,  altresi',  che  il  vizio  materiale dell'eccesso di
 potere  legislativo  possa  avere  sia  una   valenza   in   positivo
 (sconfinamento  dai fini condizionanti la validita' della legge), sia
 una valenza in  negativo  (allorquando  non  si  provvede,  in  tempi
 ragionevoli,   ai   compiti  propri  del  legislatore,  nonostante  i
 "pressanti inviti", a eliminare manifeste situazioni di disparita' di
 trattamento).  Ed  in queste ipotesi, la Corte e' chiamata a svolgere
 un controllo piu' penetrante, allineando le normative in vista di  un
 risultato di giustizia.
   Necessita,  pertanto,  una  reductio ad legittimitatem dell'art. 1,
 terzo comma, lett. B), della legge 27 maggio 1959, n. 324 (modificato
 con  legge  3  marzo 1960, n. 185) e degli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29
 dicembre 1973, n. 1032 (t.u. con forza di legge art. 134 della  Corte
 costituzionale),  con  la  soppressione della regola illegittimamente
 enunciata (esclusione i.i.s. della base  contributiva-retributiva  ai
 fini   della  buonuscita  E.N.P.A.S.),  vero  e  proprio  anacronismo
 legislativo  senza  piu'   alcuna   giustificazione,   lasciando   al
 legislatore  il compito di provvedere alla copertura finanziaria che,
 invero, vista la categoria dei beneficiari e il tipo  di  prestazione
 che si scagliona naturaliter nel tempo, trovera' facile soluzione con
 ricorso alla contribuzione previdenziale (autofinanziamento).
    Tutto  cio'  premesso,  il tribunale, ritenuta la fondatezza della
 eccezione di incostituzionalita' e la sua rilevanza ai fini decisori,
 solleva  la  questione  di  costituzionalita'  nei  termini di cui in
 motivazione, con rimessione degli atti alla Corte  costituzionale  ai
 sensi  dell'art.  134  della  Costituzione,  legge  costituzionale  9
 febbraio 1948 (art. 1) e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Sospende il proseguo del giudizio.